lunedì 23 marzo 2009

La Topa e il Sacro - Parte seconda: le fonti


Dopo aver dato, nella prima puntato, qualche ragguaglio sulla vita tormentata della fondamentale compositrice settecentesca Gustava Dandolo in Culfranti, eccomi pronto a farvi parte del mio sapere profondo da vero musicologo enunciandovi le fonti con le quali s'è ricostruita la partitura della cantata "La Topa e il Sacro", data per la prima volta alle scene a Parma nel 1765.

Innanzittutto facciamo un po' d'ordine riguardo alle edizioni antiche e moderne: parti dello spartito, e in particolar modo le arie della protagonista iperfemminile vennero stampate sin dal 1801 in quel di Roma (provincia di Sampietro) dalla tipografia inglese Moot 'n Day, con la nota "ad uso delle savie donzelle", e più sotto, al frontespizio "edizione di arie della marchesa Culfranti dagli originali". Di quali "originali" si parla questo è difficile da stabilirsi, giacché molte soluzioni armoniche (v.g.: progressione SI LA DO nella prima aria della Topa) non si ritrovano negli autografi recentemente riscoperti (vd infra). E' probabile che la dicitura "dagli originali" sia fallace, oppure che l'anonimo editore abbia deciso di modificare l'assetto armonico dei brani. In ordine cronologico segue, in un florilegio di arie scritte per la famiglia Degli Oceàni stampata nel 1827 per i tipi delle Dimenticanze di Frecate, un'aria del Sacro "Son più forte, son più bello" indicata come "tratta della pars secunda" senza specificarne ulteriormente la collocazione all'interno della cantata. Per trovare successive fonti a stampa si deve fare un salto di ben 80 anni: del 1907 infatti è la prima ricostruzione frammentaria dell'opera, a cura di Gianciotto Missa Drizza, stampata "per conto della famiglia Dandolo" a Vinegia. In realtà non esiste una famiglia "Dandolo" direttamente legata alla Culfranti, ma si suppone che sotto questo nome, nella Vinegia del primo '900 si nascondesse un'associazione di mutua assistenza rivolta a chi, in periodi così bui, si sottoponesse, come la Dandolo, al cambio di persona. Nella breve e oscura prefazione, Missa Drizza elenca il materiale consultato al fine di restaurare l'integrità de "la Topa". Vi riporto il paragrafo nella sua interezza:

"Onde ricucire pezzo per pezzo, brano a brano, la cantanta che quivi le S.V. ritroveranno per loro grande godimento, dovetti cercare e ricercare ancora nelle Regie Biblioteche di mezza Europa, e laonde le fonti mi dicessero che la Topa fosse stata data quivi mi recai a verificarne la sussistenza. E lungo fu il mio peregrinare di scaffale in scaffale, e di scaffale in scaffale, in Topa in Topa, riuscì a cavare bastevoli tracce da concludere il presente lavoro. Di particolare aiuto mi furono i mss seguenti: - Il codex Frocini della Biblioteca Checchese a Riga - Il codex Prurigi della Bibliothèque Nationale de France, in Lutezia - Il codex Missionari custodito presso l'Archivio privato del Conte Semela D'Aigratie a Culotta.
Infine trovai di somma grazia alcune arie d'un'opera d'un genovese chiamato Ferrari, e poiché la cantata così conclusa pareva poco completa, ve l'aggiunsi ad arbitrio mio, pur certo che vi sarebbe stato gradito".

Dalle parole suddette si evince chiaramente come l'abitudine di credere che l'opera di Ferrari "La vulva e il coccige" sia il modello della cantata della Dandolo nasce da questa edizione contaminata. Ma a questo proposito consacrerò un futuro mio al solito illuminante saggio.

I tre manoscritti elencati dal vigoroso Missa Drizza non esistono più, giacché guerre e latrocinii li hanno fatti sparire: in particolar modo colpisce la triste sorte dell'Archivio privato del Conte Semela D'aigratia, smembrato dagli ultimi eredi del lignaggio e probabilmente finito in mani di innumerevoli privati.

Ma in fondo poco importa, giacché nel 1950, presso la Biblioteca principesca degli Oceàni a Parma, nel cartonnage di una serie di volumi ottocenteschi sull'Arte dell'uccellagione a mano libera, sono state ritrovate ben 50 carte di pugno della Dandolo, contetenti la Topa in quasi tutta la sua superba completezza. Le pagine però erano in feroce disordine, e poiché l'edizione del 1907 sembrava del tutto inaffidabile circa la ricostruzione della sinossi, e data l'assoluta astratezza dell'argomento, gli studiosi non seppero pubblicare un'edizione completa della cantata, ma solo le singole arie in ordine sparso, in un volume, stampato nel 1955 a Croctone nella provincia di Islamabad.

Soltanto nel 1978, con il ritrovamento del tutto fortuito, del libretto originale della Topa (vd immagine allegata), in un codice miscellaneo appartenuto a Felistrozzo degli Ozeàni e sottoscritto dalla ben più celebre cantatrice Marfesina Puledrotti in Fuga, amante di Felistrozzo e grandiosa prima interprete della Fanciulla Maniscala di Franz de Pallen, si poté stabilire un'edizione completa e critica del capolavoro della Dandolo. E questa venne esarata direttamente dal Nume Gabbietti per i tipi della casa editrice Oscura di Mediolano sulla Martesana.


venerdì 20 marzo 2009

Merlina in Ascensore


L’asceso ormai disceso teatro inaugura con la Merlina di Menedelejev la sua maratona classicara. Serata, quella di ieri sera, divisa tra tradizione, cagate filologiche, e innovazione. Le voci (ma che sto ancora qui a discuterne…io non canto più dal 1851…) ovviamente sono state in grande difetto. Difetto sonoro, in quanto proprio non si sentivano, che pareva cantassero con la testa cacciata in un imbuto sigillato con del silicone. La serata manco a dirlo è passata senza lasciare troppe tracce, tra fischi e buuu indirizzati alla Megacess, interprete del ruolo di Amelialastregacheammalia, e al regista Corsen Nodepoi, il quale ha privato lo splendido (e chiarissimo direi) libretto di tutta la sua fantasiosa magia per restituirci una porcata con servette puttanelle e simili; e applausi abortiti in seguito ai sacrosanti zittii (e caspiterina, se vi dico io di star zitti un motivo ci sarà, no???) provenienti dal loggione. Lo spettacolo è stato una vera ciofeca nonostante le cagate buoniste che qualche forumista con le orecchie piene di merda si ostina a dire a tutti i costi…garantisco che ieri sera eravamo all’ammazzacaffè…altro che frutta!

Protagonista nel ruolo di Merlina il Soprano Arterio, che con i soli mezzi naturali è riuscita ad imporsi sul resto del cast…la voce è naturalmente bella e ampia, peccato le mende tecniche che la portano a sbracare il grave, aprire il centro e a salire con la voce indietro, frutto tutto questo di una impostazione tecnica veramente fallosa e poco stilizzata. Il legato è andato a farsi benedire più di una volta…non sentiremo più un vero legato come era quello di Dame Jenny Northerland, che grazie al suo grammelot pasticciato non ci faceva capire una fava di quello che diceva, però santo cielo che legato!!! Un vero paradiso sonoro che a voi ascoltatori moderni sarà precluso ascoltare per il resto della vostra esistenza. Quanto allo stile poi, sembrava una perfetta Beatina della Cavalleria Urbana, che pareva di sentire un animale sgozzato ad ogni recitativo, più che una primadonna stilizzata del Belcanto settecentesco.

Più a posto stilisticamente il Ruggione di Monaca Piselli che ha presentato però un’organizzazione vocale da film horror… la voce non ha mai trovato in tutta la recita la giusta posizione in maschera, sempre arroccata nel fondo dell’esofago che pareva volesse uscire dal culo più che dalla bocca…ed effettivamente l’effetto è stato poco diverso!! Assolutamente peteggiante, infatti, il Verdi prati falcidiato inoltre dai vistosi tagli. Quanto al canto di agilità…boh…chi l’ha sentito??

Veniamo ora alla Amelialastregacheammalia della Megacess vera croce, senza delizia, di questa scalcinata Merlina. Una Megacess in grado di rendere un must del belcanto settecentesco un must del ridicolo con suoni talmente fissi che somigliavano più ad un fischio di richiamo per gli uccelli o ad una nutria in amore, che ad una cantante lirica alle prese con una delle più belle e difficili arie mai belcanto settecentesco.


La Bradamente di Khristine Marameo mancava totalmente di volume e penetrazione…zona centrale totalmente sorda che pareva le avessero foderato la bocca di ovatta, agilità al più corrette, artista inutile.

Quanto agli uomini il proverbiale pietoso velo sarebbe veramente d’obbligo, ma per onore di cronaca diremo che il tenore interprete del ruolo di Oronzo pareva più un vaccaro che bercia portando le mucche al pascolo che un cantante professionista, e il basso, l’orrendo Oplites, pareva una delle vacche di cui sopra…argh!!!

Unica nota positiva della serata il direttore Antonietti che finalmente ha evitato di sfrantecarci i pendenti con tempi da messa cantata, e perverse libidini classicare… complice anche lui, però, nell’aver scelto ‘sti berciazzi incapaci di affrontare persino un banalissimo passaggio Sol1-Sol 5, privi di vera tecnica stilizzata di canto…

La regia di Corsen Nodepoi è stato il vero bersaglio di questa guerra santa loggionistica. Operazione più psico-masturbatoria che colta quella di Corsen Nodepoi che ha voluto privare l’opera Mendelejeviana di tutta la sua metaforica e poetica magia, per abbassarla a squallido quadretto perverso e borghese fatto di sevette imputtanite, borghesi mondani e uomini ignudi.

Signori miei, se questa è Merlina io sono…Giulia Grisi!!!

GP

giovedì 12 marzo 2009

Terz'ultima excogitatio: maschere e bigliettieri



E' inutile stare tanto a rallegrarsi e sparare botti se poi non ci sturano le orecchie dalla me..lma che le fa imputridire ogn'ora.

Com'è di specchiata notorietà un teatro e qualsivoglia società d'intenti che non si fondi in maniera del tutto ultronea su una collaborazione più vasta e falsamente democratica deve avere due elementi fondamentali al timone e poco c'importa del direttore artistico e del sovrintendente: fondamentali sono appunto maschere e bigliettieri altrimenti detti bigliettai altrimenti detti omini della biglietteria.

Ora i secondi hanno a che vedere con il vil denaro e guai se le maschere si confondono con il loro operato verificando ad esempio la corretta distribuzione dei posti in platea o il fatto che alcuni furbetti passano da galleria a platea giocando all'arte de' portoghesi tanto nota già ai tempi del falsismo piaga della moralità umana e tutto a disdoro delle umane glorie punto. No, le maschere hanno un loro ruolo fondamentale che è quello di far risuonare le voci dei cantanti dentro di sé giacché come disse il Gabbietti alla giovanissima Francine De Lafosse che senza le sue illuminate tesi mai avrebbe raggiunto il celeberrimo e inebriante "belatino da troppo e perfettissimo appoggio" e quindi si trovò a sentire dire dal Nume: "Recordare, dulcissima Francina, quod in canto stilefacto unum secretumst idest mascara" cosa che le attuali cantanti forse in preda a falso zelo latinista hanno interpretato come bistro o belletto scurrile da porsi sugli occhi onde parere tutte cantanti da film muto del 1750 o eroina falsista tutta spingi spingi che lo stringi e invece "mascara" è ben noto basso latinismo del Gabietti per indicare la maschera e quindi da ciò si evince come logica specchiata e non assolutamente ultronea né insapida che la maschera ha ruolo fondamentale nel teatro affinché il canto sia veramente stilizzato.

E quindi è questo che oggi manca nei teatri delle vere maschere che sappiano far risuonare la voce alta in modo che prema il tetto e scoperchi il teatro e insomma succedano quelle cose oltramondane che oggi non riusciamo a sentire giacché più che scoperchiare il teatro si produce l'effetto opposto ossia che s'attappa il buco del culo e si diventa pure stitici ad andare a ascoltare codesti malnati che s'avvicendano sui palcoscenici per nostra grande sventura.

E poi le maschere dovrebbero anche conoscere il grandissimo compositore napoletano "O Gallinaro" ma questa è un'altra storia e non voglio mai che voi vi sentiate inferiori alla mia sapienza garzantinamente acquisita.

Sic dixit Donzelletta. Feliciter amen.

lunedì 9 marzo 2009

La Topa e il Sacro - Parte prima: storia di una compositrice, Gustava Dandolo

L'esimio, sacerrimo Gabbietti in un suo illuminante saggio ebbe a dire "Topa et sacrum est apex toti canti stilefacti, gurgis animae famulantis in eo", e qui potremmo fermarci, stimatissimi lettori, nel descrivere quella che per noi veri estimatori del Vero Canto Stilizzato è quasi il sacro Graglio dell'arte, la vetta irragiungibile di un sapere che pur appartenendo a mondi non accessibili senon alla divina Pasta e al suo paredro Donzelletta, riusciamo comunque a vedere delinearsi dietro il velo della nostra ben disposta ignoranza.

La recente scoperta ad opera del noto critico avanguardonista Herrera José dello spartito della "Vulva e il Coccige", creduto disperso da ormai più di trecento anni, ci ha spinti a riconsiderare uno spartito che per anni, pur ferma rimanente la sua gloriosa ubertà musicale in materia di stilizzatezza, passava per semplice rifacimento. Ma così non è, e il confronto tra i due spartiti, che presto deporrò ai piedi della divina Pasta affinché Ella lo disponga per voi, lo dimostra appieno.

Ma vorrei in cotanto giorno partire da una più semplice disamina della storia di questo spartito, prendendo le mosse dalla loro compositrice, Gustava Dandolo in Culfranti. Accennerò brevemente ad una biografia poggiante su scarsissime fonti. Della Dandolo infatti sono noti un solo ritratto (vd immagine), che la coglie nel fiore della sua pallente bellezza e pochissime testimonianza biografiche diretta, la prima delle quali è contenuta in una lunga epistola che il marito di lei, l'assai meglio noto Titozzo Marchesati Culfranti, scrisse al Conte Palatino di Borgogna all'indomani del matrimonio, avvenuto in Algeri (isola di Cicilia) nel giugno del 1735. E qui possiamo citare il breve stralcio della lettera:

"Sono altresì lietissimo, sua celestiale Altezza, di nunziarvi con grande diporto di cuore le mie recentissime - giacché avvenute ier soltanto - nozze con una giovinissima puledra di Vinegia a pena tornata da Masionegra ove, nell'intento esclusivo di potere a me legare sua sorte, da Gustavo qual era cangiossi di persona e divenne Gustava, tutta mia e per diletto del mio cuore. Oh quanto contento sono è cosa dura a dirsi, Altezza gratiosa, e con quanta gioja in seno men vo diritto alla catastrofe de li anni correnti, ora che allato reco quale fiore mattutino questo giglio candido et odoroso. Oh quanta felicità sarebbe, Oddio! se potessi presto presentarla a Voi ma appena desponsato eccomi garzone ancora, gia che la sposa mia è musica anch'essa e corse stamani a onorare un suo contratto nella non lontana Regio, ove l'attende il regal teatro cittadino per le prove dell'opera sua ultima".

Pochi dati si possono evincere da queste righe: Gustava era nato Gustavo, a Vinegia e quando andò in sposa a Culfranti già esercitava il mestiere di compositrice. E' davvero un peccato che il Culfranti non citi il titolo dell'opera della Dandolo data a Reggio Calabria, in provincia di Merano, nel 1735, giacché non è stato possibile rintracciarlo in nessuna fonte ad oggi nota.

Poi, fino alla data certa della composizione della "Topa e il Sacro", nessuno sembra aver ricordo della bellissima moglie di Culfranti. Non è nemmeno noto se essi abbiano avuto una figlianza, anche se il cambio di persona subito dalla Dandolo potrebbe portarci a tendere ad un'ipotesi negativa in tal senso.

Nel 1764 la Dandolo è sicuramente già a Parma a servizio presso i Duchi degli Oceàni, come testimonia una lista di stipendi ritrovata in calce ad un libro di ricette custodito presso la biblioteca privata della famiglia Oceàni. E nel 1765 la compositrice viene portata sugli scudi grazie al suo capolavoro "La Topa e il Sacro", sulla cui genesi torneremo nella seconda parte di questa serie monografica.

Di lei si perdono ancora le tracce per almeno un'altra ventina di anni, ma nel 1786 essa viene citata nella "Gazzetta sprizzante" quale autrice di un intermezzo di grande successo, il "Dito nella camera del Sacro". Purtroppo di quest'opera dal titolo assai interessante, quasi certamente tratta dal romanzo di avventure "The itching hole" del maleste Mirò Delculle Prude, non rimangono né partitura né libretto.

Non si sa nulla della vecchiaia di Gustava Dandolo, ma non credo sia ultronea e avventata ipotesi pensare che sia stata non meno avventurosa della gioventù.

A presto per una disanima della protogenesi e partenogenesi de "La topa e il sacro".

domenica 8 marzo 2009

Vesuvia alla radio


Trasmessa ier sera una Vesuvia in differita da Ferrata registrata un paio di mesi fa. L’esecuzione di questa Vesuvia non si è distaccata dalla solita odiosa, scorretta, per nulla stilizzata prassi classicara per cantanti e strumentale (che baldraccata poi questa degli strumenti originali!!!), unica deroga a tale prassi i numerosi tagli, necessari però per salvare la pelle a quei tre cagnolini che abbaiavano in scena, che se l’avessero cantata integralmente sarebbero morti al prim’atto.
La direzione di Setticlavio Petrarcone è stata se non brillante (parliamo pur sempre di classiari…che volete pretendere???) quanto meno decente perlomeno a livello di intonazione e precisione esecutiva. Peccato non si possa dire lo stesso per il cast vocale…

Nel ruolo di Vesuvia abbiamo ascoltato (ce la abbiamo messa tutta…) Anna Collini, cantante dalla voce scarna, sbiancata, aperta e strozzata in acuto che ha cosparso la sua parte di strilli e grida che pareva più un’attrice di film porno muto del 1735. Voce senza dubbio più adatta a dar vita ad una mezza pesciolona che ad una regina… A lei compagna per doti e tecnica canora la cantante Montana de Sola nel ruolo di Arsovivo, che più che all’originario evirato cantore cui la parte era affidata fa pensare ad un orrendo controtrotenore per stimbratura, mancanza di ampiezza e volume e gravi parlati anziché correttamente immascherati con stilizzata emissione sul fiato, tale da permettere agevolmente il passaggio Sol1-Sol7.

La parte di Rosmarina era affidata alla cagnant…hem..cantante (perdonate il lapsus freudiano!) Sony Aspirina che ha fatto grande sfoggio di una voce perennemente ingolata, ingolfata, soffocata, stonata, strillata, arrancante nelle agilità. Un filo meglio (ma mica tanto eh!) è stato il Mastrolindo di Velocina Avariata, soprano leggero querulo e stonato, che in virtù di un ruoletto del cazzo non ha avuto modo di triturarci i coglioni più di tanto.

Il tenore Vitigny è il classico tenore con voce sbiancata e legnosa, con fiati che paiono scorregge, senza dubbio più adatto ad una messa (in qualità di chierichetto si intende…) che all’opera…Nella parte di Oronzo il Gianpietro Ruggiti…che dire? Un nome una garanzia…

Ma veniamo al reale problema che accomuna questi dilettanti del virtuosismo canoro. Il problema sta proprio nell’emissione (!!!), emissione giammai stilizzata, immascherata correttamente sul fiato, ma al contrario arroccata nell’esofago, in posizione talmente bassa da non rendere agevole neppure il passaggio Sol1- Sol5 (di facilità irrisoria per qualunque studentello di canto con la voce in posizione semidecente), figurarsi poi le difficoltà che ne nascono all’atto di dover sciorinare granitiche agilità che partono dal do sotto al rigo per arrivare Sol7, cosa che le Corno e le De Lafosse eseguivano in totale souplesse. Con tale impostazione ogni tentativo di accentazione si risolve, come si può ben immaginare, in urla e berci più vicini alla tradizione falsista che a quella del belcanto settecentesco.

Vesuvia
Opera in tre squarci
Libretto di Silvio Stoviglia
Musica di Georg Mendelejev

Personaggi e interpreti

Vesuvia – Anna Collini
Arsovivo – Montana de Sola
Rosmarina – Sony Aspirina
Mastrolindo – Velocina Avariata
Romagno – Ciro Vitigny
Oronzo – Gianpietro Ruggiti

Direttore – Setticlavio Petrarcone
Accademia Marocchina


Registrata il 16 gennaio 2009 al Teatro Provinciale di Ferrata

Ascolti

Mendelejev – Vesuvia

Squarcio I

Sei mia gioia, sei mio bene – Teresa Ti Srandella

Squarcio II

Furibondo Spira il vento – Gross Ettin, Gerardo Susina

lunedì 2 marzo 2009

Dei Debosciati fin troppo puritani - nuova edizione Mecca


Era annunciata da tempo anche perché dopo mesi di cabotinaggio attorno alle coste del mar Nero con soste in Latvia e Moldavia il carrozzone di pessimo gusto di questa produzione assolutamente e pervicacemente ultronea doveva secondo la moderna logica del non si fa nulla se poi non viene conservato allor quando buona norma antica vorrebbe che dopo aver espletato si tiri la catena ma passiamo oltre, essere consegnato ai dischi per la solita casa editrice di Islamabad un tempo famosa per essere stata legata da contratti in esclusiva con personaggi quali Giuseppe Della Suora, Risorta Infrebaldi e la vera stilizzata Notherland per contrapposizione con la cristiana Emish casa editrice invece della Cetriolini Saklà e del famigerato tenore falsista franco marocchino Mario D'Etienne. Ora sia Emish sia Mecca non si esimono dallo scodellare queste pietanze indigeste quali questi Debosciati di cui già aveva in catalogo un'edizione celebrissima con la detta Jenny Notherland (Artura indimenticabile) e il mai troppo compianto Apuleio Cignintegri quale Eviro.

Debosciati di Bruttini che come insegna la musicologia e cioè il libretto del direttore Malinge che batté la solfa in quell'edizione e non la musicacchiologia che tanto sangue canoro fa scorrere (cfr le penitenze della Quinquagesima) sono innanzitutto opera per cantanti adusi e proni alle vere regole del Vero Canto Stilizzato e quindi de facto ineseguibili al giorno d'oggi. Solo per questa ragione questa nuova edizione andrebbe usata come vaso da notte tanto d'altronde essa è capiente quanto a volume e capienza e invero la fotografia della pseudo divetta protagonista invoglierebbe a agili espletazioni assai più stilizzate di quanto siano le sue prove canore.

L'edizione si picca d'essere la prima edizione discografica della cosiddetta "versione Benibran" a proposito della quale non starò a dilungarmi giacché è materia assai troppo poco sintetica per adattarsi al mio stile di scrittura, cioè stile scrittorio, cioè modus scribendi, oltremodo sintetico per adattarsi a una materia poco sintetica e quest'ultimo mio periodo scritto da me medesimo lo dimostra appieno e in tutta verità fattuale, fattiva e anche fattura (cfr. il prossimo articolo di Trombettini sul cimitero di Trecate, non fossi così stilizzato come sono mi toccherei le nobili gonadi).

Ma per fare la version Benibran non basta certo chiamare l'ultima divetta popputa e di viso discretamente appetibile per interpretare un vero ruolo da prima donna stilizzata: come ho già ricordato la Benibran altra non era che la figlia maggiore del celebre cantante e trattaista Emmanuel de la Garce, così chiamato perché alla madre e cioè nonna della Benibran piaceva travestirsi da maschio e andare a pescare siluri con l'allor primo ministro siciliano Vinstone Chiesincollina., ma tutta questa è solo letteratura per letterati adusi al VCS e so bene che voi abbiate bisogno di ben altri rudimenti. Ad ogni modo senza stare troppo a menare il can per l'aria soprattutto perché amiamo gli animali e non vorremmo che detto cane cadesse e comunque di cani ne abbiamo già tanti ancorati alle sacre tavole dei teatri che nessuno riesce a staccarli, insomma vorrei dire con molta stringatezza che la Artura di detta Fagiolia Sbattoli, mezzosoprano nominale ma in realtà sega integra e totale non riesce a sostenere le lunghe arcate sul passaggio Sol1-Sol7 cui la parte di Artura la costringe soprattutto negli insiemi dove una vera prima donna stilizzata (cfr Northerland) riesce a farsi sentire raggiante e perfettamente in maschera nonché nondimeno sontuosa sul tappeto musicale tessuto da Bruttini in quel punto e quindi non pretenda la Sbattoli come sostiene nelle varie interviste imposte più che concesse ai vari giornali - cacata charta! - internazionali e nazionali che lei è l'unica a cantare la parte di Artura come veramente si dovrebbe giacché Cetriolini Saklà, Northerland e la meno relativa Asiné l'avrebbero interpretata senza tenere conto delle esigenze di uno spartito che andrebbe diretto verso la fracassonità a dire suo che non verso l'intimismo patetico e lirico delle tre dette cantanti (stilizzate le prime due, ancorché solo nei primi 70 anni di carriera la prima, e meno stilizzata la terza ma a confronto della Sbattoli sarebbe come paragonare la Merde d'Artiste a la merda del can menato per l'aria. Molto molto male la famosa scena della saviezza ove Artura finalmente rinsavita erra di stanza in stanza nel suo palazzo in cerca di una dose di Voltaren: non c'è nessun lirismo nelle sue agilità cempennate e nelle sue emissioni invero poco stilizzate ma cosa forse ancor più grave la cantante è forse troppo contenuta e invero poco agitata come si converebbe ad una vera scena della saviezza giacché come dettò il Gabietti in quel di Francina Marta al grande soprano di coloritura Filippa Ruzzini: "Savitudo in vero canto stilefacto reddenda est magno cum furore quia firmamentum stilus contraribus afectibus instat ; quamobrem si vere stilefacte cantare vis capsum tibi freca de quo in texto inveneris. Scriptum enim est in Manueli De la Garce tabellarum: "Si vis cantum para culum".

Diegy Nagy Roszas, noto tenore ungherese, è un altro divo della Mecca e come al solito e come ha dimostrato nel recente suo parto podalico dedicato a Giobatta Cleptini in cui rendeva palesi gli stessi limiti qui appalesati: voce sì decorosamente emessa specie se paragonata a quella della Sbattoli, grande agitazione espressione che si confà bene alla parte ma costante mancanza di una vera componente nasale nel canto e volume fin troppo stentoreo e pieno per essere giustamente definito stilizzato laonde l'ultimo tenore anzi affine ad un virato cantore di cui Cleptini seppur non virato poteva essere considerato il vaglioso surrogato ai tempi della composizione dei Debosciati era l'oggi ritirato Biondini cui il Gabietti insegnò tutta l'arte del VCS declinata in ogni sua più minuta parte e che seppe applicarle per il breve periodo che questo è concesso alle umane voglie.

La mia estrema sintesi mi porta anche nonostante vorrei fermarmi qui ma sarei poco sintetico invero a parlarvi molto estesamente del Giorgione e dell'Enrichetto di turno: Mah Skavo Coreano dalla Crimea, sedicente baritono ma più affine ad un osso di seppia raffreddato e Baldovino Scroto o Scroti (questa variazione nel nome tantum si spiega con l'intermittente risalita d'una delle sue gonadi probabilmente a causa delle brache troppo strette che ubicumque porta onde avantaggiarsi presso le signore delle platee) del quale invero poco stringantemente potremmo dire che orrendamente latra citando quel Durante allievo poetico del Gabietti (che lo ricordo era uomo di altissimo talento anche nell'esercizio delle lettere).

Sarò molto lungo sui comprimari giacché non ricordo i loro nomi.

La direzione di Renato Giacomi è escremento distillato in alambicchi ricavati dalla putredine del cadavere del buon senso e della buona creanza musicale e come al solito laddove l'organico originale prevede una voce per parte la tendenza classicare vuole il fracasso di 90 elementi e la varietà del diapason laddove è certamente accertato che esso era fisso e situato attorno a 290 hz: così dimostrano gli acuti di Francine De La Fosse che, o miracolo, a quell'accordatura finivano sempre qualsiasi diapason il battisolfa di turno le imponesse.

Bruttini - I Debosciati

Artura: Fagiolia Sbattoli
Eviro: Diegy Nagy Roszas
Giorgione: Mah Skavo
Enrichetto: Baldovino Scroti (Scroto?)
et coeteri

Akademie fuer Scheisse Musik Stuttgart
Renato Giacomi, direttore (????)